di Clara Baldasseroni
Un evento emblematico: la copertura della guerra in corso a Gaza si è aperta, fra le altre cose, con la circolazione di una falsa foto, in realtà relativa a un passato attacco missilistico in Siria. Subito l’attenzione, invece di concentrarsi sul cercare di capire cosa stava davvero succedendo, si è persa nelle solite discussioni intorno alle fake news. Non ci sembra che niente di tutto questo abbia invalidato la veridicità di una nuova guerra in atto.
Il 17 ottobre è stato bombardato l’ospedale palestinese Al Ahli. La responsabilità è stata subito attribuita all’aviazione israeliana, che in quel momento stava sferrando un’offensiva; ma il 23 ottobre il New York Times (e insieme a lui anche diverse altre testate giornalistiche mondiali) ha ritrattato, affermando di aver dato una versione troppo vicina alle fonti di Hamas. La rettifica dichiarava che a colpire era stato un missile jihadista caduto erroneamente: difficile chiarire chi dica la verità, ma intanto l’ospedale è stato distrutto e le vittime palestinesi rimangono dimenticate.

Il giorno successivo, comunque, gli Stati Uniti hanno deciso di disattivare tutti i servizi Google di segnalazione di traffico reale, e tra il 27 e il 29 ottobre per 34 ore Gaza è rimasta isolata da connessione internet e reti telefoniche.
Nonostante i tentativi di censura, sono state documentate numerose persone (molti donne e bambini) morte sotto le bombe, tra i quali anche numerosi giornalisti; sono state bombardate nuovamente ambulanze e ospedali. Al 10 novembre i dati del ministero della sanità di Gaza riportano 11.078 morti, di cui 4.506 bambini. Anche qui, potremmo parlare degli infiniti e brutali dibattiti sul fatto che abbia senso o meno usare la parola “pulizia etnica”; difficile smentire, però, che quello che è in corso vada ben oltre la caccia al terrorista, e si configuri come il tentativo di sgombrare da decine di migliaia di innocenti la striscia di Gaza.
Intanto arriva una lettera riportata dai media americani, firmata da 750 giornalisti appartenenti a decine di testate, inclusi il Washington Post, il Boston Globe e il Guardian. Si legge la chiara condanna dell’uccisione di reporter da parte di Israele: “Scriviamo per chiedere la fine delle violenze contro i giornalisti a Gaza e per chiedere ai responsabili delle redazioni occidentali di essere accurati nella copertura delle ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi“. I giornalisti non hanno peli sulla lingua e accusano Israele di “soppressione su vasta scala della parola”. Nella lettera si osserva come le parole “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio” dovrebbero essere usate per descrivere il trattamento dei palestinesi da parte di Israele.
Usiamo quindi le parole per indicare la sostanza dei fatti. Del resto il governo d’Israele, oltre a attuare un piano di militarizzazione che ha costretto i palestinesi a Gaza in un regime di apartheid, può contare sulla vicinanza della politica neocolonialista americana, che da tempo ha gettato l’intera regione nel caos per ragioni di supremazia economica. Tra le tante dimostrazioni ricordiamo solo i cosiddetti “accordi di Abramo”, firmati negli ultimi anni da Trump, i vertici d’Israele e gli emirati Arabi. Perché questi signori, di fronte all’enorme tragedia in corso, si meravigliano che la Palestina assurga nel nostro immaginario al simbolo della resistenza dei popoli contro un sistema mondiale di sopraffazione?
Quanto a noi, ci sentiamo di rilanciare l’appello che in queste tragiche ore si moltiplica da una piazza all’altra del mondo: “Stop ai bombardamenti su Gaza”