Il dio degli sfrattati


Nella città dei profitti non c’è posto per pregare. Il caso della comunità islamica

Aveva parlato di “analfabetismo religioso” l’Imam di Firenze Izzedin Elzir, nell’incontro del 26 febbraio scorso con la Comunità dell’Isolotto, di quella diffusa pigrizia mentale che rende refrattari alla conoscenza profonda della propria spiritualità, ottusi al confronto con altre immagini, altri simboli, altri luoghi. Lo sfratto della comunità islamica dalla sede storica di piazza dei Ciompi da parte della società pratese Finvi, previsto per il 16 dicembre scorso, era da poco stato scongiurato da una proroga al 27 aprile: in quell’occasione, dopo aver ricordato il grande abbraccio ricevuto dalla città nel giorno del minacciato sgombero e sottolineato la solidarietà concreta manifestata da Alessandro Santoro a nome della Comunità delle Piagge o da Vincenzo Russo, cappellano di Sollicciano, aveva anche ribadito le precise responsabilità delle istituzioni, chiamate per dettato costituzionale a garantire l’esercizio del culto e a favorire l’integrazione di cittadini e cittadine all’interno del tessuto urbano e sociale.

Imam “per caso”, come si racconta rievocando il suo arrivo a Firenze da Hebron, in Palestina, nel 1991, negli anni Izzedin Elzir si scopre suo malgrado punto di riferimento di una collettività che diventa sempre più numerosa, raccogliendo la responsabilità di organizzare la preghiera e gli incontri in assenza di uno spazio dedicato: valorizza così il ruolo delle case, delle famiglie, di una pratica religiosa e comunitaria diffusa che dovrà essere recuperata anche durante i più recenti anni della pandemia. Ricostruisce, poi, la lunga serie di tentativi intrapresi per trovare un’alternativa alla sede di piazza dei Ciompi, di per sé insufficiente ad accogliere i fedeli (costretti a scaglionarsi in tre turni per la preghiera del venerdì), tutti non andati a buon fine: dalla proposta di acquisto di quegli stessi locali al progetto di comprare un terreno in viale Europa tuttora abbandonato. E non dimentica di far cenno alle implicazioni geopolitiche e ai rischi che comporterebbe accettare l’aiuto economico offerto da un paio di paesi la cui contropartita, per finanziare la costruzione di una nuova moschea a Firenze, sarebbe il potere di nomina dell’Imam stesso e, dunque, il diretto controllo della comunità islamica cittadina.

Nella data simbolica del 25 aprile, in prossimità del rinnovato ultimatum, Izzedin Elzir incassa anche l’appoggio incondizionato di Bernardo Francesco Gianni, abate di San Miniato, che dalle pagine della sezione fiorentina di “Repubblica”, sottolinea come lo sfratto costituisca “uno sfregio a Firenze”, la Città sul Monte teorizzata da La Pira che però non ha ancora trovato un posto per accogliere la preghiera di 30.000 fedeli: troppo spesso rammentato a sproposito da chi siede oggi in Palazzo vecchio (dove l’Imam, sorridente ma fermo, invitava i suoi e la cittadinanza intera ad andare a pregare, nel caso il previsto sgombero avesse avuto luogo), di certo il compianto sindaco non avrebbe lasciato passare tutto questo tempo prima di attivarsi concretamente nella ricerca di un luogo grande, bello e centrale per accogliere degnamente la comunità islamica. “Si tratta – citiamo ancora dall’intervento dell’abate di sottrarre spazi alle logiche commerciali tipiche della città in vetrina, cioè di fare una precisa scelta politica»: parole che si commentano da sole e risuonano lapidarie, nella Firenze pietrificata dagli interessi di parte e dal mercimonio turistico”.

Poi, il 12 maggio 2023 la situazione si sblocca e l’annunciata manifestazione di interesse per l’acquisto della ex sede della Banca Intesa, a pochi metri dal garage in cui i fedeli sono stati costretti a ritrovarsi per anni (versione post-moderna dei primi cristiani nelle catacombe), si traduce in realtà: l’ok dell’istituto di credito c’è, la somma necessaria (1 milione e 250 mila euro) pure, la giusta soddisfazione dell’Imam, della comunità islamica e di quella parte della cittadinanza che ha a cuore gli articoli 3 e 19 della Costituzione anche. Il “dio minore” degli sfrattati ha trovato casa in extremis, fra un bed and breakfast e un hotel di lusso, fra un dehors e un negozio di telefonia, fra una catena à manger e una gelateria.

Cosa rimane da osservare, in questi mesi che fanno seguito al lieto ma troppo sospirato fine dell’annosa questione? Resta da gettare uno sguardo un po’ più ampio sugli altri spazi, reali e ideali, concessi dalla città ostile e sottratti a quella civile: un altro ostello affittato in via Mannelli ad un gruppo immobiliare tedesco, la prossima apertura dello studentato di lusso di viale Belfiore, il piazzale Michelangelo svenduto al ricatto dell’alta moda, panchine di cemento come bare (e infatti sono pietre tombali sulla bellezza e su molto altro) in Santo Spirito, l’abbattimento ingiustificato e criminale dei pini di viale Redi, un referendum popolare ostinatamente negato… È tempo di cominciare a unire i puntini, per intravedere cosa apparirà: se il contorno della città invivibile è fin troppo chiaro, sta a noi colorare lo sfondo ancora incerto di quella possibile.

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