di BARBARA CREMONCINI

Può capitare, a chi passi di mattina nei pressi della Sala Vanni, l’auditorium che si apre nel chiostro della Chiesa del Carmine, in Oltrarno, di farsi sorprendere da una musica morbida e avvolgente, un suono profondo e caldo che forse qualcuno riconoscerà come quello prodotto da un fagotto. Nessuno potrà vederlo, ma nella sala affrescata, sotto la luce di un riflettore, un musicista si esibisce, da solo, davanti alle sedie vuote. Studia gli spartiti e prova e riprova le ance che ha appena costruito con le sue mani. Un lavoro lungo e paziente che trasforma questi pezzetti di canna nella voce dello strumento. “L’ancia è l’anima del fagotto – dice Feri – uno strumento può anche essere fatto con chiavi d’oro e diamanti, ma senza questa non è nulla”. Feri ha 61 anni, è nato in Iran ma ha vissuto a Firenze quasi tutta la vita. La Sala Vanni, le ance, il suono del suo fagotto sono, al momento, le uniche cose che possiede. Oltre a un letto all’albergo popolare che è poco meno che vivere per strada. “Alle nove di mattina ti buttano fuori, lì non potevo lavorare, non avevo un posto per tenere lo strumento e gli attrezzi per fare le ance. Il fagotto lo lascio da un liutaio in via di Camaldoli, tutto il resto con me, dentro una scatola”.
Da qualche giorno le cose sono un po’ cambiate. Feri è stato accolto nella sede di Fuori Binario dove può lavorare per qualche ora al giorno alle sue ance. Grazie ai consigli di amici fagottisti ha scoperto che, forse, queste piccole creature di canna possono diventare la sua salvezza. “Fino a qualche anno fa i musicisti si facevano le ance da soli, te lo insegnavano a scuola. Oggi nessuno le sa più fare e così ho pensato di venderle on line. Anche se ci vuole tempo, perché ogni ancia deve essere provata e rifinita per dieci giorni per fare davvero un prodotto di qualità”. Feri ha calcolato che, se riuscisse a venderne cinque al giorno, potrebbe fare un bel guadagno. “La mia vita è tutta colline, come la Toscana: alti e bassi, dal lusso alla miseria, dal tutto al nulla”. Il tutto era un lavoro, non quello di musicista sognato ma mai realizzato perché le orchestre a un certo punto si sono chiuse all’ingresso degli stranieri, ma un’attività commerciale, messa su grazie ai soldi dei suoi genitori.
“Come tanti ragazzi iraniani qui a Firenze – racconta – avevo dei negozi”. E poi una famiglia, dei figli. Ma anche in quegli anni la vita di Feri non è stata facile. “Sono arrivato come ragazzo fortunato, la mia era una famiglia importante del nord dell’Iran, benestante. Tutti i giovani della famiglia venivano a studiare chi in Svizzera, chi in Germania. Anche io dovevo andare in un collegio in Svizzera. Ma invece ho scelto Firenze. Avevo visto il film “Incompreso” (girato a Firenze da Luigi Comencini nel 1966, ndr), mi ero appassionato, volevo conoscere l’Italia”. Così niente collegio. “Ho vissuto qui presso una famiglia, in una villa bellissima e ho frequentato le superiori e poi il conservatorio”. Poi la rivoluzione islamica e, subito dopo, la guerra Iran-Iraq hanno cambiato tutto. “I miei non potevano più mandarmi i soldi, compravo denaro a mercato nero. Però sono riuscito a lavorare nel commercio, senza cittadinanza era impossibile entrare in un’orchestra”. Alla fine la cittadinanza non l’ha mai presa.
“Era difficile a quei tempi, ci volevano anni. Poi, quando avrei potuto prenderla, per i concorsi ero già troppo vecchio. Ma gli affari andavano bene, ogni tanto suonavo in qualche ensamble di musica da camera. E’ stato dopo la crisi del 2008 che ho cominciato a perdere colpi. Con il Covid è stato ancora peggio, ho perso anche l’ultima attività. Mia moglie è tornata in Giappone per stare con il padre malato. Ho fatto laureare mia figlia e, quando lei è partita per raggiungere la madre, ho consegnato le chiavi di casa. E mi sono ritrovato per strada”.

Dice Feri che le cose finiscono così, per caso. Come per caso cominciano. Anche il fagotto, un caso. “Ho studiato flauto, poi mi sembrava uno strumento troppo facile. Pensavo al violoncello, il mio maestro mi ha consigliato il fagotto, che è un po’ il violoncello dei fiati”. Venire a Firenze e restarci, un altro caso. “Ho pensato di tornare in Iran nel ‘91, mio padre mi ha detto no, loro si erano ormai abituati al nuovo regime prendendo il veleno goccia a goccia, per me sarebbe stato uno shock insostenibile”. In Iran non è più tornato. Ma a Firenze non vuole restare. “Il mio obiettivo è guadagnare abbastanza per andare in Giappone, da mia moglie e mia figlia”. Oggi, forse, comincia la risalita. Grazie a tante piccole cose, frutto del caso sì, ma anche delle fiammelle di solidarietà che per fortuna qualcuno tiene ancora accese. Un posto al dormitorio, lo spazio a Fuori Binario, il liutaio che custodisce il fagotto. Suonare il campanello del Musicus Concentus e trovare qualcuno che apre e, solo per lui, accende il riflettore della Sala Vanni. Ed emozionarsi “ogni volta che comincio a suonare”.
Bellissimo articolo, grande Feri con grande cuore.Il fagotto è la sua passione e la sua vita è la ricerca di poesia e luce.