L’ingiustificabile stupore di fronte all’alluvione in Romagna

L’alluvione è l’occasione per avanzare politiche del territorio basate su un nuovo concetto di sicurezza

È il 17 maggio. Mattina. Piove dal giorno prima. Le scuole sono chiuse e non si lavora perché è stata attivata un’allerta meteo. La corrente manca da almeno 12 ore; internet non funziona. Non c’è modo si capire cosa stia succedendo. Già due settimane prima, un intero quartiere di Faenza è stato inondato. Solo con il passare delle ore si è cominciato a capire la devastazione che lasciato dietro di sé il temporale. Corso Garibaldi, in pieno centro, è sommersa da fango e rifiuti. Il complesso dei Salesiani è sott’acqua. C’ero stato la sera prima con mia figlia per accompagnarla al scuola di musica; il parcheggio adiacente era stato messo a disposizione di chi volesse mettere la propria auto al sicuro: non è servito; la piena è giunta fin lì sfondando anche il primo piano della scuola. Nella notte, il Lamone, il fiume di Faenza, ha rotto gli argini in due tratti che attraversano la città. I quartieri a ridosso del fiume sono devastati. Colleghi e amici che avevano messo a disposizione le proprie case credendole sicure sono in soffitta perché l’acqua ha invaso i piani inferiori: ora sono loro a chiedere aiuto. L’acqua è arrivata dove non ci aspettava potesse arrivare mai. Disperazione, dolore, rabbia si sono mescolati al fango. E con loro la sorpresa, lo stupore: ma questi due sentimenti sono i meno giustificabili, quelli più urgenti da affrontare per provare a darsi una spiegazione, per quanto parziale, di quanto è successo!

Io ho potuto prendere coscienza del fatto che Faenza è realmente attraversata da un fiume solo la mattina del 17 maggio. Il ponte delle Grazie l’ho attraversato in tutti i modi, eppure l’acqua non l’ho masi vista scorrere. Il Lamone è una presenza molto discreta; non se ne parla al mercato; non ci sono eventi lungo le sue sponde; non si portano i bambini a guardarlo. Io stesso ho vissuto per 3 anni a Faenza senza percepirlo. Dopo il 17 maggio questo non potrà, o non dovrebbe, essere più possibile. A Faenza c’è un fiume, c’è il Lamone, che si è dimostrato essere anche fragile e pericoloso.

L’impatto di un’alluvione è soprattutto sulle case. Pochi giorni dopo la seconda alluvione della Romagna, il collettivo Wu Ming ha pubblicato un testo in cui elencavano con precisione le cause umane del disastro; la cementificazione del territorio era una di queste. La tempestività dei Wu Ming mi è sembrata pretestuosa perché è arrivata quando non sapevamo ancora il numero dei morti e men che meno quello delle cantine zeppe di fango. Come esempio dello sfruttamento immobiliare dei fiumi i Wu Ming citano il caso del condominio Casa sul Fiume di via De Gasperi di Faenza, un condominio costruito praticamente sugli argini. Sono andato a controllare: avevano ragione. Il condominio è stato realmente costruito a ridosso del fiume e la notte del 16 maggio è stato travolto dalla piena. E si può perfino prevedere un disastro futuro: un complesso di 12 villette dovrebbe sorgere nello storico Orto della Ghilana, situato in un’ansa del Lamone: Legambiente ed Extinction Rebellion denunciano da anni questo abuso di potere delle amministrazioni ad esclusivo vantaggio degli speculatori edilizi. Finché la “vista fiume” verrà usato per gonfiare il valore degli immobili lo stupore di chi si sveglierà con l’acqua che sfonda porte e finestre sarà tutto tranne che innocente.

E tutto ciò è più vero in Romagna, che, come documenta il Rapporto sul dissesto idrogeologico pubblicato nel 2021 dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), è fra le aree con il più alto rischio alluvione d’Italia. Un fatto di cui già gli antichi romani erano consapevoli, ma del tutto misconosciuta dai contemporanei ultra-tecnologici, me compreso. Ho vissuto per diversi anni nei Paesi Bassi, un paese dove la paura dell’acqua impone che i bambini imparino a nuotare prima che a camminare. Forse nessuno di loro cadrà mai in un canale, ma questo addestramento tiene costantemente alta l’attenzione e ricorda quotidianamente che il rischio è reale. Da quando vivo in Romagna, non ho ricevuto nessun invito all’attenzione; ho scoperto il Rapporto ISPRA solo dopo l’alluvione. Alla luce di questi dati, dovremmo ripeterci ogni mattina, con lo spazzolino in bocca, “vivo in una città ad alto rischio alluvione … vivo in una città ad alto rischio alluvione, vivo in una città ad lato rischio alluvione”.

C’è un altro dato che non è stato sottolineato adeguatamente: la pioggia caduta in città fra il 16 e il 17 maggio non era sufficiente a spiegare il disastro a cui abbiamo assistito. La pioggia colpevole, infatti, è quella caduta sui monti della dorsale appenninica che ha innescato frane enormi scaricando milioni di metri cubi di fango e terra negli alvei dei fiumi, che non hanno retto alla spinta. Le immagini che abbiamo visto più spesso erano quelle delle case invase dall’acqua. Ma in collina, case e strade non esistono letteralmente più; e ciò che preoccupa ancora di più è che, dopo circa tre mesi dall’alluvione, le colline continuano a muoversi. Quelle colline generose e rassicuranti, refrigerio alle estati roventi degli ultimi anni, ci hanno tradito. Amministratori, residenti, estimatori dell’appennino Tosco-Romagnolo hanno sgranato gli occhi di fronte allo scivolamento di boschi e case verso le valli. Uno spettacolo che nessuno si aspettava, un fatto eccezionale. È quello che ho pensato anch’io al racconto di alcuni amici che non hanno potuto rientrare in casa perché la loro casa semplicemente non esisteva più. Si è detto che questi eventi succedono una volta ogni duecento anni. Ebbene, anche per le frane l’ISPRA ha pubblicato un inventario (IdroGEO) che riporta circa 70 frane osservate nelle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini fra il 2018 e il 2022. Il messaggio è chiaro, risaputo ma, a quanto pare, non noto: la dorsale appenninica sul lato sud della pianura padana è uno dei territori più instabili d’Italia. Non è una scoperta recente: l’inventario conta e classifica le frane fin dal medioevo, e sono più di 20.000! Come mai né io né gli altri miei compaesani d’adozione ne abbiamo mai sentito parlare, né prima né dopo l’alluvione?

Ho seguito molto da vicino le ultime campagne elettorali. Fragilità del territorio, gestione dei rischi di alluvione, monitoraggio della impermeabilizzazione del suolo non sono mai stati temi del dibattito. Di fronte a queste emergenze, destre aggressive e becere si ostinano a parlare di sicurezza dagli immigrati (…e si sono spinte fino ad incolpare le talpe per l’indebolimento degli argini dei fiumi). Le sinistre hanno preferito rivolgersi alle realtà produttive minimizzando rischi ed impatti delle proprie politiche del territorio. Queste dinamiche hanno determinato l’ignoranza degli Emiliano-Romagnoli sui rischi idrogeologici delle terre in cui sono nati; infatti, continuano a desiderare, comprare, e costruire con “vista fiume”. Nel frattempo, l’Appennino si spopola e la politica sembra concentrarsi solo sui grandi centri urbani, serbatoi di voti più appetibili delle comunità montane. A questa ignavia si aggiunge una miopia che potrebbe portare a danni ben più gravi nel medio termine: la minimizzazione dei cambiamenti climatici che ha prodotto un’impennata degli eventi catastrofici negli ultimi dieci anni. Eventi come quelli visti in Romagna a maggio del 2023 sono e saranno sempre più probabili. Affrontarli richiede politiche globali ed interventi su scala nazionale. Ed invece ci tocca assistere ad una frantumazione amministrativa che è culminata nelle autonomie differenziate, di cui la Regione Emilia-Romagna è stata sostenitrice. Sono gli stessi amministratori locali di quella stessa parte politica che oggi amministra la Regione a lanciare l’allarme: i sindaci di Faenza e di Cervia hanno pubblicamente denunciato la solitudine e l’inefficacia delle singole amministrazioni locali nel fronteggiare catastrofi che non conoscono confini.

Nel 1984, nella cittadina di Fudai, fu completata la costruzione, iniziata quasi vent’anni prima, di un muro di 16 metri a difesa da eventuali tsunami. L’opera fu contestata dalle opposizioni sia per la sua presunta utilità sia per i costi esorbitanti. Il Sindaco Kotaku Wamura però, era capace di visione a lungo termine e non si curò di sondaggi e insulti per la sua testardaggine. Aveva assistito ad uno tsunami che uccise centinaia di persone nel 1933 e si era giurato che non sarebbe più successo. Wamura morì nel 1997 senza aver potuto mai sperimentare l’utilità della sua opera, che rimase così latente fino alla notte dell’11 Marzo 2011, quella dello Tsunami che distrusse Fukushima ma lasciò quasi indenne Fudai, protetta dal muro. Post mortem, Wamura è oggi celebrato come un eroe.

Se l’urgenza con cui si è voluto ritornare al regime precedente l’alluvione è comprensibile nel breve termine, una revisione radicale del nostro approccio verso la natura che rimetta in discussione il governo del territorio e ristabilisca una lista di priorità politiche reali non è più rinviabile. Quello che è successo a Faenza e in Romagna nella notte fra il 16 e il 17 maggio del 2023 può accadere di nuovo prima di quanto pensiamo.

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