No, la tecnologia non ci salverà dall’emergenza climatica

Ho letto la prima parte di “Il secolo nomade: come sopravvivere al disastro climatico” di Gaia Vince (Bollati Boringhieri, 2023) col fiato sospeso per la lunga serie di certe trasformazioni dovute al surriscaldamento globale che l’autrice descrive con dovizia di particolari. Poi ho letto tutto il resto con un gran fastidio, pensando alla villa vittoriana su una collina londinese, nella quale l’autrice ha detto di abitare, e alla pervasività del pensiero neoliberale.

L’autrice è ricercatrice onoraria al University College London e giornalista scientifica, ha all’attivo pubblicazioni su «Nature», «New Scientist», «The Guardian» e alcuni volumi, tra i quali questo che affronta il tema del surriscaldamento globale, delle sue conseguenze e delle possibili soluzioni per governare i cambiamenti che ne deriveranno.

Ho trovato meritorio il modo in cui descrive, senza peli sulla lingua, il “disastro climatico” rendendo chiaro che tra 50 anni (solo 50 anni) vaste aree del pianeta saranno inabitabili e descrivendoci i mutamenti ambientali ai quali andremo incontro e le migrazioni che ne conseguiranno. Gaia Vince ha ben presente il problema delle migrazioni e delle diseguaglianze e su entrambi adotta un approccio a prima vista ineccepibile: le diseguaglianze vanno combattute e le migrazioni vanno accolte.

Andando avanti nella lettura, tuttavia, ho avuto sempre più forte l’impressione che sia a livello dell’analisi che della ricerca delle soluzioni, l’autrice in realtà si collochi in una posizione del tutto “conservatrice”, intendendo per conservatrice una posizione che non ambisce a “cambiare” lo sguardo sul mondo e a trasformarlo ma semplicemente a governarlo nelle sue caratteristiche note.

L’autrice ha un piano e ce lo propone nei dettagli: dato che subiremo ondate di calore, incendi, alluvioni; vivremo in una situazione di carenza di acqua da bere, terreno per coltivare e, dunque, cibo, ma avremo necessità di energia sempre crescenti; dato che vaste aree saranno inabitabili il mondo abitabile si svilupperà solo sopra il 45° parallelo. La Siberia, il Canada e la Groenlandia diventeranno regioni climaticamente accoglienti e ambite. I movimenti migratori saranno ingenti e andranno governati perché lo spostamento verso le terre vivibili sia accogliente e ordinato: per farlo gli stati che saranno climaticamente inabitabili dovranno stipulare contratti di affitto o di acquisto con quelli nei quali le temperature saranno accettabili e dovranno dare vita a megalopoli di edifici prefabbricati, energeticamente efficienti che, eventualmente, sia possibile scomporre e rimontare altrove alla bisogna.

Il volume, e questa è una grossa debolezza, non affronta in alcun modo tutti i temi politici e geopolitici delle relazioni internazionali che dovrebbero rendere possibili questi accordi tra Stati, difficili già in tempi di vacche grasse, e – a mio parere – difficilissimi in tempi di vacche magre.

Ma andiamo avanti. Qualora questo sforzo riuscisse quello a cui andiamo incontro è una vita da libro di fantascienza distopica: la produzione dell’energia sarà affidata al nucleare (una “fonte energetica affidabile che non produce carbonio”) o a mega impianti eolici installati nelle regioni che saranno diventate inabitabili; la loro manutenzione sarà affidata a sistemi automatizzati e robot. Anche l’agricoltura si dovrà industrializzare e si realizzerà in parte nei territori troppo caldi per l’uomo dove lavoreranno “contadini robotici controllati a distanza e droni per la distribuzione delle sementi, e macchinari controllati dall’intelligenza artificiale per la raccolta” oppure sottoterra, illuminata da luce artificiale a led; oppure in vasche nelle quali saranno coltivate microalghe che costituiranno buona parte dei nostri nutrienti. Ovviamente saranno gli immigrati che troveranno lavoro in queste fattorie sotterranee o ai vasconi delle alghe.

Ma non basta perché, in questa specie di elogio della scienza, Vince elenca un crescendo di tecniche di geoingegneria che saranno utili anche per mitigare il cambiamento climatico: dall’ “iniezione di particelle riflettenti nell’atmosfera” per ridurre le radiazioni solari che raggiungono la terra alla fertilizzazione degli oceani per fare aumentare il fitoplancton che assorbirebbe maggiori quantità di carbonio. Dallo stoccaggio del carbonio nelle falde acquifere saline o in falde sedimentarie profonde all’accelerazione del dilavamento delle rocce che ha degli effetti positivi nell’assorbimento del carbonio. Ma ancora si immagina di soffiare sui ghiacciai una neve artificiale che rallenta lo scioglimento o pompare acqua con pompe giganti per ricongelare il mar glaciale artico; fare un terrapieno nell’oceano per evitare che le acque calde raggiungano i ghiacci o schiarire e ispessire le nuvole per farle riflettere meglio e altro ancora in un antropocene all’ennesima potenza. Quello che ai miei occhi sembra un futuro da film del terrore per lei è una vita auspicabile per la quale dobbiamo organizzarci fin da ora. Insomma, dovremmo superare secoli di conflitti e tensioni tra stati magicamente quando non siamo riusciti ad accordarci per ridurre le emissioni al di sotto di 1,5° o per dimezzare le emissioni globali entro il 2025 per raggiungendo lo zero netto entro il 2050. E dovremmo farlo per vivere in un mondo ipertecnologico che continua a abusare l’ambiente.

D’altronde su questo l’autrice si esprime con chiarezza: a suo parere non ha senso cercare di bloccare la crescita delle temperature perché lei non è favore della decrescita e nemmeno di una più semplice riduzione dei consumi che, invece, considera elementi fondamentali di una società democratica. E perciò, è più facile immaginare (ma senza testarne la reale fattibilità) di poter condurre un progetto ipertecnologico purché non metta in discussione in nostro modello di sviluppo, piuttosto che puntare a un reale cambio di paradigma.

Quello che resta, alla fine, è una grande amarezza per le trasformazioni climatiche a cui andremo incontro; per le migrazioni ingenti che ne deriveranno; per i conflitti che arriveranno e per l’offesa all’ambiente che proseguirà e soprattutto perché anche se il suo progetto riuscisse sarebbe davvero un mondo terribile che lei osserverà dalla sua casa vittoriana sulla collina londinese al riparo, lo dice, dalle alluvioni.

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